il colpo di grazia e la resa dei conti

Il
colpo di grazia e la resa dei conti

Alcune considerazioni sul disegno di
legge e sull’imminente riforma dell’università

[NdE: L’articolo che segue è stato pubblicato sulla versione cartacea del n. 3 di "echi dall’ateneo" in formato ridotto per esigenze editoriali. Il secondo, terzo e quarto paragrafo appaiono unicamente in questa edizione online.]

Il colpo di grazia

Ci siamo. Con il progetto di riforma
targato Gelmini1,
ci troviamo di fronte al culmine del processo – graduale ma
costante – di demolizione dell’università pubblica in Italia.
Poco più che un anno fa, chiamavamo questo processo “riforma
permanente” 2,
per sottolineare come sia stato una costante di qualsiasi governo a
prescindere dal colore politico.

Oggi, però, assistiamo ad un vero e
proprio colpo di grazia: con le ferite dei tagli della l. 133/2008
ancora aperte, e dietro all’ostentazione dei feticci governativi
del merito, dell’efficienza e del privato, si nasconde la volontà
di dismissione totale del sistema pubblico di istruzione
universitaria. Inoltre, con l’obbligo per gli atenei di applicare
tutte le disposizioni della legge entro massimo nove mesi dalla sua
approvazione parlamentare, questa volontà politica si trasforma in
una privatizzazione di fatto a tappe forzate. Come se non bastasse,
da realizzare a costo zero, cioè senza nuovi o maggiori oneri per la
finanza pubblica. I costi – come dimostra la recente esperienza
dell’aumento delle tasse nell’Università di Pavia – si possono
scaricare tranquillamente sugli studenti.

 

L’università del futuro

Si potrebbe pensare ad un vergognoso
ritorno al passato, alla vecchia e polverosa università d’elite,
ad una chiusura definitiva dell’era dell’università di massa
aperta dal fantomatico ’68. Sicuramente ci sono degli elementi di
restaurazione, nel senso di un parziale ritorno a una maggiore
“selezione all’ingresso”. Ma ci troviamo di fronte soprattutto
a quella che i tecnocrati europei del Processo di Bologna e il
nostrano “Partito della Bocconi”3
vedono come l’università del futuro: basata sul decisivo apporto
di finanziamenti dai privati, sulla selezione in base al merito e non
sull’inclusione a dispetto del reddito, sull’efficienza del
mercato, sulla competizione invece che sulla cooperazione,
sull’adozione del (fallimentare) modello anglosassone,
sull’indebitamento dei singoli studenti invece che su un nuovo
sistema di welfare universitario di tipo universalista che allarghi
il vecchio concetto di diritto allo studio includendo alloggi, pasti,
trasporti, accesso a cultura, a mobilità internazionale, etc. Il
tutto senza intaccare quella pessima specificità tutta italiana del
baronato, anzi appoggiandosi e rafforzando quella struttura di potere
feudale che da decenni appesantisce l’università con il nepotismo
e la corruzione che la contraddistinguono.

Ma perché non ci troviamo
semplicemente di fronte ad un’edizione aggiornata dell’università
pre-68? L’università pre-68 aveva un carattere meramente di
selezione di classe, puntando ad ammettere al suo interno pochi
studenti che se lo potevano permettere (di solito i “figli di”) e
quindi produceva pochi laureati destinati ai pochi incarichi
dirigenziali necessari al funzionamento della società. L’università
post-68 di oggi riflette i cambiamenti avvenuti negli ultimi
quarant’anni nella società, ed è quindi relativamente più
democratica nel numero di studenti e di laureati, pur conservando
dinamiche di selezione: l’operaio avrà anche il figlio dottore, ma
l’ambiente sociale di provenienza di un individuo continua ad avere
ricadute sul suo titolo di studio. Ma cosa ha di nuovo l’università
del futuro? In sintesi, traduce in pratica un’esigenza del sistema
di produzione attuale, quello basato sulla conoscenza, che nel ’68
non si era ancora manifestato. Questa esigenza è una riduzione
dell’accesso alla conoscenza, di per sé bene comune e non rivale4,
principale fattore produttivo nei paesi a capitalismo avanzato. In
altre parole, si rende artificialmente scarso qualcosa che è
presente a livello capillare nella società e viene costantemente
accresciuto e arricchito dalla cooperazione sociale. Si tratta di
qualcosa che non è scarso per sua natura, ma anzi si fa più
abbondante con la condivisione, e che gli individui sono
spontaneamente portati a far circolare tra di loro. E in particolare,
si punta alla riduzione dell’accesso alla conoscenza
qualitativamente più alta, quella in grado essere flessibile e
creativa, cioè di creare sapere nuovo. Il risultato è quindi
un’ulteriore gerarchia – oltre a quella classica tra lavoratori
non qualificati e qualificati – all’interno della categoria dei
lavoratori dotati di formazione superiore: la gerarchia tra chi
dispone di conoscenza di scarsa qualità, rigida e a rischio di
invecchiare presto e servire a poco nella vita reale, e chi al
contrario possiede una buona conoscenza e gli strumenti per
utilizzarla al meglio.

 

Riduzione dell’accesso alla conoscenza

Innanzi tutto, come funziona la
selezione nel caso concreto dell’università del Bologna Process
e della premiata ditta Tremonti-Gelmini? In prima battuta, rendendo
difficile intraprendere un percorso di studio per chi non possiede
risorse sufficienti: la riforma permanente ci ha abituato ad aumenti
delle tasse, riduzione dei servizi e dei benefici indiretti, a cui
ora si somma la sostituzione del diritto allo studio con il fondo per
il merito e il “diritto al debito (d’onore)”. In secondo
ordine, con l’introduzione di tempistiche del tutto incompatibili
con il ritmo di vita dell* student* lavorator*: aumento dell’obbligo
di frequenza, proliferazione dei numero dei corsi, intensificazione
dei ritmi di studio, esami parziali, che qualunque studente del 3+2
conosce fin troppo bene.

 

Inclusione differenziale

Accanto a questo, si osserva una
dequalificazione dei contenuti dell’apprendimento (meno tempo di
lezione e di studio individuale e quindi meno qualità dei saperi).
La conseguenza di questa dequalificazione è il fatto che, per
accedere ad una formazione efficace e che metta al riparo dal lavoro
precario (cioè in grado di produrre effettivamente valore aggiunto),
sia necessario accedere agli strati più alti. Non è un caso –
infatti – se il Processo di Bologna organizza le università
europee su tre livelli, cioè primo, secondo grado5
e dottorato al vertice: solo l’ultimo livello garantisce un sapere
realmente autonomo, punto di partenza per creare innovazione, sapere
nuovo. Altro nucleo della peculiarità dell’università della
riforma permanente si basa sull’aumento del numero chiuso e su
filtri di vario tipo che danno come risultato un numero sempre minore
di accessi ai livelli via via successivi. Si tratta cioè di
inclusione differenziale, termine che illustra una doppia tendenza in
corso: da una parte si punta ad incoraggiare, tramite l’abbreviazione
della sua durata temporale, il completamento di almeno un primo ciclo
di formazione universitaria; dall’altra, con la creazione di
gradini formativi successivi, si crea contemporaneamente una
differenziazione del sistema universitario in due canali paralleli,
uno di massa (ritagliato sulle esigenze del mercato del lavoro, nello
specifico dei privati che entreranno nel Consiglio di Amministrazione
degli atenei) e l’altro d’eccellenza6.

Privatizzazione

Citando il ddl, art.15, comma 6:
“Dall’attuazione delle disposizioni della presente legge non
devono derivare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”.
Ecco la cosa importante: la strategia del governo sull’università
consiste nell’imposizione di tagli e austerità, a investire ci
pensi qualcun altro. Ma chi? Saltiamo all’art. 2, che riguarda
“organi e articolazione delle università”. Questo articolo
attribuisce maggior peso decisionale al Consiglio di Amministrazione
(CdA), che deve essere composto da “personalità italiane o
straniere in possesso di comprovata competenza in campo gestionale e
di un’esperienza professionale di alto livello”. Il 40% del CdA
non deve ricoprire alcun incarico accademico, vale a dire che deve
essere scelto tra privati cittadini e chiaramente non verranno
chiamati a gestire un ateneo persone a caso. Aprire il Cda ai
privati, verosimilmente imprese, ha un nome preciso: privatizzazione!
Del resto le basi giuridiche erano già state gettate dalla legge
133/2008, che sanciva la possibilità di trasformare gli atenei in
fondazioni. In un simile panorama, si può immaginare che le aziende
godranno di una posizione di rendita ancor più vantaggiosa rispetto
al passato: non solo potranno sfruttare la manodopera precaria che
uscirà dagli atenei, ma potranno anche indirizzarne direttamente
l’attività formativa, modellandola sulle loro esigenze di mercato
di breve periodo. Il CdA, infatti, avrà un ruolo di indirizzo per
tutte le attività didattiche. Una conferma dell’impostazione
privatistica del ddl si può trovare nell’introduzione di una
figura nuova all’interno degli atenei: il Direttore Generale (art.2,
comma 2, parte i). Questi si sostituisce a quello amministrativo ed
accentra su di sé altre funzioni quali la gestione dei servizi, del
personale, delle risorse. Insomma, è un vero e proprio manager
dell’università.

La strategia governativa appare qui in
tutta la sua evidenza: il governo sceglie di disinvestire nel sistema
universitario, e per non farlo morire di stenti punta ad intercettare
i soldi delle imprese private. Ma sappiamo che la logica del profitto
non fa fare niente per niente: ecco quindi che si offre ai privati un
incentivo bello ghiotto, ossia di costruirsi su misura un proprio
centro di formazione superiore a seconda della convenienza e della
contingenza. L’esperienza della globalizzazione e dei mercati
finanziari, però, ci insegna una cosa: le decisioni di investimento
delle imprese sono sempre più volubili, i loro capitali sempre più
volatili, ovunque impera la logica del breve periodo: oggi investo
nel paese X che mi conviene, domani sposto i soldi nel paese Y perché
mi assicura un rendimento maggiore. E il paese X si trova con il culo
per terra, vedi l’Argentina nel 2001 o qualsiasi altro paese
toccato da una delle periodiche crisi a cui assistiamo da una
quindicina d’anni a questa parte. Facendo un parallelismo tra le
decisioni di investimento sui mercati internazionali e quelle sugli
atenei: un rischio che si prospetta è quindi quello della precarietà
della durata nel tempo del finanziamento dei privati, ossia la chiave
di volta del progetto del governo7.
Ma in questo modo non si creano più problemi di quanti non si
pretenda risolverne? Non è una manovra ideologica, basata sul mito
dell’efficienza del mercato e sull’imitazione del (fallimentare)
modello anglosassone? L’università si merita questo?

Come nota a margine va evidenziato come
il processo di privatizzazione proposto faccia chiaramente a pugni
con concetti quali partecipazione e democrazia. Ora, va detto che
l’attuale sistema di rappresentanza degli studenti sia un orpello
di scarsa utilità, dal momento che è inserito in organi
universitari caratterizzati da rapporti di forza estremamente
sbilanciati a sfavore di questa componente: nel CdA di oggi, ad
esempio, ci sono tre rappresentanti degli studenti e una trentina di
docenti. Il ddl riesce nell’impresa di peggiorare la situazione,
prevedendo un solo rappresentante in CdA (art.2, comma 2, parte g),
che come abbiamo visto, sarà l’organo principale di gestione ed
indirizzo. Magra consolazione è l’inserimento della componente
studentesca obbligatoria nelle commissioni di valutazione dei docenti
(art.2, comma 2, parte l), che già oggi non sembrano avere un
impatto effettivo sulla didattica universitaria.

Indebitamento e crisi

Un’altra questione cruciale ruota
intorno all’istituzione del Fondo per il merito (art.4, comma 1) e
all’introduzione del prestito d’onore (art.4, comma 1, parte b).
Dopo due decenni di riforma permanente nel segno di una progressiva e
costante erosione, sparisce del tutto il concetto di diritto allo
studio, sostituito da una sorta di “diritto al debito (d’onore)”
che trasforma gli studenti in indebitati cronici. Vincolare
l’erogazione delle borse di studio al “merito” invece che al
reddito non è altro che un’operazione mediatica ed ideologica,
dato che l’ambiente sociale di provenienza di un individuo
influisce tanto sui suoi meriti quanto sulla scelta di intraprendere
o meno un ciclo di studi universitari, che secondo la Costituzione
dovrebbero essere aperti anche agli studenti “meritevoli ma privi
di mezzi”. Ma soprattutto, indebitarsi per poter (continuare a)
studiare rappresenta una spada di Damocle pendente sulla testa dello
studente che, durante gli studi o una volta laureato, si vede
costretto a dover accettare condizioni di lavoro sfavorevoli per
pagare le rate del prestito. Quella dell’indebitamento è, dunque,
una doppia trappola perché conduce dritto nella spirale senza fine
del debito e della precarietà.

Anche in questo caso può essere utile
guardare all’esperienza della globalizzazione e dei mercati
finanziari per capire come l’ideologia dell’efficienza di mercato
del governo italiano venga da lontano. Il prestito d’onore per gli
studenti – infatti – non può che rimandarci mentalmente al
massiccio ricorso all’indebitamento privato da parte delle famiglie
americane. Il tipo di welfare state anglosassone (da alcuni anni
modello a cui tende la maggioranza dei paesi europei), appunto,
teorizza e pratica una fornitura di beni e servizi “residuale”,
cioè solo in favore di situazioni di forte disagio ed evidente
povertà8;
si permette così che una larga fetta di popolazione, non
necessariamente benestante, soddisfi i propri bisogni sul mercato
dell’offerta privata di servizi assistenziali, educativi, sanitari.
Un esempio chiave di questa dinamica è la mancanza di un piano di
edilizia sociale, che demanda al mercato e all’indebitamento privato
il soddisfacimento del diritto alla casa. La conseguenza è sotto gli
occhi di tutti: è stato proprio il mancato pagamento delle rate dei
mutui americani a innescare la crisi economica in cui ci troviamo.

E andando oltre, appare chiaro come
l’impianto dei prestiti d’onore non si discosti dalla solita
strategia di scaricare i costi della crisi e degli errori del sistema
verso il basso. Infatti, dato che lo stato si fa garante del prestito
(che può essere erogato con fondi di privati), se lo studente non
restituisce il privato non ha perdite perché lo stato copre le
spese. In altre parole, se il meccanismo non funziona i soldi delle
banche vengono comunque garantiti (i profitti vengono privatizzati),
mentre le perdite vengono socializzate. Esattamente quanto è
accaduto nella gestione della crisi, in cui i governi si affannavano
a salvare le big bank con piani miliardari, mentre la disoccupazione,
i licenziamenti, la cassa integrazione, gli sfratti dilagavano fra la
gente. Di fronte a questo sorgono spontanee alcune domande: fino a
che punto è sostenibile un impianto del genere? È lungimirante o
sintomo di miopia politica? Quanto può garantire uno stato prima di
dichiarare bancarotta? Per salvare uno stato dalla bancarotta è
ipotizzabile lo stesso livello di impegno politico-finanziario
utilizzato per il salvataggio delle grandi banche in crisi?

La resa dei conti

Di fronte allo scenario ancora
incompleto eppure già drammatico della legge 133, uno dei meriti
dell’Onda è stato sicuramente quello di rallentare il processo di
dismissione dell’università pubblica, imponendo un blocco
temporaneo alla riforma permanente in salsa berlusconiana, cioè
imposta fino a quel momento a colpi di decreti.

Ma non bisogna cadere in falsi
trionfalismi: è altrettanto sicuro che gli sforzi non sono stati
sufficienti, perché una volta calati i toni e i numeri delle
mobilitazioni e spenti i riflettori mediatici, è stato partorito
questo schifo di disegno di legge.

Quindi? I prossimi mesi saranno
probabilmente cruciali per la sua approvazione in parlamento.
L’impegno di chi crede senza opportunismi nel movimento andrebbe
innanzi tutto indirizzato all’informazione capillare nelle facoltà
e al tenere alta l’attenzione sul tema. Ma non basta. Senza
opposizione da parte del corpo vivo dell’università questa riforma
rischia di passare troppo facilmente, anche per colpa di una retorica
del merito (di stampo antipolitico e giustizialista, contro la
“casta” dei baroni) fin troppo presente nella cosiddetta
opposizione parlamentare. Né possiamo sperare che qualcun altro
fuori dal parlamento lo faccia per noi.

Di fronte al colpo di grazia occorre
reagire con una resa dei conti, determinata al punto giusto, e
rilanciare con la nostre idee per una nuova università. Abbiamo da
perdere solo un’università di merda in un paese che odia i
giovani.

***

Note:

1
Per una trattazione dei punti chiave del disegno
di legge del ministro Gelmini sull’università, cfr il dossier
scritto a novembre 2009 dal CUA e reperibile sul blog all’indirizzo
http://cuapavia.noblogs.org/gallery/5482/139726-dossier.pdf

2
Cfr l’omonimo documento del gruppo di studio di scienze politiche
scritto a novembre 2008 –
http://unipvvs133.googlegroups.com/web/GDS_UniPV_ScPolitiche.pdf.

3
Rappresentato per esempio dall’editorialista de
Il
Corriere della Sera
Giavazzi o
dall’economista bocconiano Perotti.

4
Un bene non rivale ha una caratteristica peculiare: la sua fruizione
da parte di un singolo non compromette la fruizione da parte di
tutti gli altri (un esempio: l’illuminazione stradale). In
generale i privati non trovano remunerativa l’offerta di tali
beni, che resta quindi competenza del pubblico perché i beni non
rivali apportano comunque benessere alla collettività.

5
In Italia i primi due livelli sono – ovviamente – laurea
triennale e specialistica.

6
Per una più ampia trattazione dell’inclusione differenziale, cfr
il documento del gruppo di studio di scienze politiche.

7
Per non parlare poi del tipo di formazione
impartita, che rischia di essere funzionale alle necessità delle
imprese presenti in CdA e non generale, qualitativamente alta,
flessibile e creativa.

8
Il modello opposto (diffuso nei paesi a
capitalismo avanzato prima dell’era neoliberista partita con
Thatcher e Reagan, e oggi parzialmente in vigore nei paesi
scandinavi) è il modello “universalista”, che impegna lo stato
a fornire servizi alla totalità della popolazione e che quindi
permette di non rivolgersi per forza al mercato.

Questa voce è stata pubblicata in Lotta e progetti. Contrassegna il permalink.