17.11 – corteo contro debito e austerità

#occupypavia

17.11 – corteo contro debito e austerità
h. 9 @ stazione FS
h.9 @ ingresso Nave
h. 10 @ Uni centrale


[di seguito un approfondimento sulla questione della crisi del debito pubblico
]


 

Crisi o ristrutturazione?

Default come exit strategy

La crisi degli anni ‘30 fu il risultato di una criticità negli investimenti che la guerra e le politiche keynesiane del secondo dopoguerra hanno permesso di superare. Al di là di tutti i cambiamenti, quello che passerà alla storia come carattere distintivo dell’ultimo secolo è l’affermarsi progressivo e omnidirezionale del consumismo.

Negli anni ‘60 e ‘70 la quota di capitale destinata al profitto è stata insediata dalle lotte operaie che hanno permesso la crescita dei salari e della domanda interna.

Sono state le politiche monetarie a condurre il terreno della crescita su un binario più favorevole al profitto, ma è solo grazie alle imponenti ristrutturazioni aziendali e finanziarie (anni ‘80) che si è potuta prevenire almeno in parte la crisi di realizzo di un occidente con salari ormai stagnanti. Per recuperare la caduta della domanda, da una parte infatti si è proceduto ad uno smantellamento della grossa struttura Fordista-Taylorista, dall’altra, soprattutto negli Stati Uniti, si è lavorato sulla struttura finanziaria e creditizia per consentire l’accesso al credito anche alle fasce con meno garanzie.

Con quella che viene definita la “sussunzione reale del lavoro alla finanza“, cioè il risucchio dei salariati nel mondo finanziario tramite la partecipazione azionaria diretta, le assicurazioni e le pensioni private, si è modificato il processo di valorizzazione e organizzazione del lavoro. Inoltre, grazie a questa liquidità, le imprese hanno potuto ristrutturarsi in formati più snelli e adattabili all’innovazione. Si è in aggiunta riconfigurata e ridislocata la catena transnazionale del valore (e del lavoro) imponendo nel nord del mondo un nuovo paradigma produttivo, dove la valorizzazione del capitale passi attraverso lo sfruttamento delle capacità intellettive del lavoratore e l’alienazione dei “prodotti” immateriali. La produzione di merci a basso costo (e basso contenuto tecnologico) è diventata invece prerogativa del sud del mondo ed ha decisamente contribuito a contenere l’inflazione.

La crescita euforica dei mercati finanziari (anno 2000 come picco di Wall Street) non poteva durare in eterno e la ripresa del 2003, generata portando all’estremo l’estensione del credito al consumo, ha avuto vita breve e una rumorosa conclusione con i drammatici crack del 2008.

La sovranità monetaria oltre ad essere, per quello che riguarda gli Stati europei, passata nelle mani della BCE (Banca Centrale Europea) è diventata, in questo processo di finanziarizzazione, ostaggio delle borse. Per difendere il valore dei titoli di Stato, e quindi la sostenibilità del debito, gli agenti pubblici sono vincolati alla necessità di “generare fiducia” e stabilità. L’immissione di moneta sul mercato, e il successivo e forzato salvataggio di banche e istituti “too big to fail” (2008), è stato il pane di quella stessa speculazione che rende vana qualsiasi manovra di riequilibrio.

La via d’uscita trovata per la crisi del 2008 ha fondamentalmente posto le basi per la crisi attuale.

Lo scudo dell’Euro, che aveva protetto dalle speculazioni Stati come l’Italia, ha cominciato a scricchiolare ed ha perso efficacia. Complice anche la mancanza di integrazione economica tra i Paesi a diversa velocità dell’Europa, sono ricominciati gli attacchi speculativi sui titoli di Stato dei singoli membri dell’UE.

Per i grandi capitali presenti a livello globale, dopo 3 anni di salvataggi che hanno sovraccaricato i bilanci statali, ci si trova costretti ad una necessaria svalorizzazione di quel capitale fittizio (di speculazione e d’impresa) che, non avendo più sostanza (fine del credito facile e infinito), ha perso di profittabilità. L’ipotesi di “uscire dalla crisi”, per tali gerarchie economiche, significa rimodellare a proprio vantaggio il meccanismo del profitto. Per raggiungere questo obiettivo sono parimenti necessarie le politiche di austerity che sono contenute nelle recenti manovre finanziarie.

Andando più nel dettaglio, osserviamo che i responsabili degli attacchi speculativi, cioè quei pochi operatori che controllano oltre il 70% dei flussi finanziari, sono anche i maggiori detentori dei titoli di Stato sotto attacco (per esempio, in Italia circa l’87% è detenuto da investitori istituzionali, per oltre il 60% all’estero).

Il declassamento dei titoli di Stato, ad opera di società di Rating, sempre più dubbie e colluse con gli stessi operatori, collabora ad alimentare una situazione emergenziale e di paura in cui c’è in gioco il tracollo dello Stato. Sotto questo ricatto i governi hanno buon gioco a portare avanti politiche di contenimento del deficit, compressione dei diritti e privatizzazioni, alimentando così i mercati finanziari e la spirale speculativa.

Questo meccanismo non è poi tanto nuovo ed è conosciuto benissimo dai Paesi in via di sviluppo commissariati da FMI (Fondo Monetario Internazionale) e BM (Banca Mondiale). Attacchi speculativi, sommati a un indebitamento acquisito per promuovere la crescita (chiamata sviluppo), portano al downgrade dei titoli del paese. Istituzioni finanziarie internazionali (FMI,BM) si propongono di salvare il Paese con prestiti, acquisto di titoli e garanzie nel mercato, in cambio di una ricetta economica fatta di Austerity e privatizzazioni. Le privatizzazioni diventano una svendita del patrimonio pubblico al mercato finanziario, e l’Austerity si traduce in manovre recessive fatte di aumento della tassazione, tagli al Welfare State, riduzione dei salari e minore difficoltà nei licenziamenti. Queste manovre, oltretutto inique, portano ad un’ulteriore polarizzazione dei redditi, ma soprattutto ad una compressione della domanda interna che a sua volta influirà negativamente sul PIL. Anche se ci fosse una diminuzione del deficit, il rapporto deficit/PIl sotto osservazione, solitamente come indicatore della crescita in un anno del debito di un paese, non migliorerebbe e porterebbe alla necessità di nuovi prestiti e nuove manovre recessive. Il declassamento del Paese porta poi ad un aumento del tasso di interesse necessario alla vendita dei propri titoli sui mercati internazionali ovvero un incremento della spesa per interessi, e quindi dell’onere del debito.

Nella sostanza gli intenti dei mercati finanziari e quelli delle manovre d’Austerity sono identici e si alimentano l’un altro; non c’è nessuna intenzione di arrivare al default che ammazzerebbe la gallina dalle uova d’oro, ma solo la volontà di appropriarsi di tutte le risorse disponibili prima di dichiarare la situazione irreversibile. I fondi salva-stati intervengono immettendo liquidità nel mercato attraverso prestiti che, formalmente sono rivolti al risanamento delle finanze dei Paesi in difficoltà. In realtà servono a salvare le banche (nel caso greco quelle tedesche e francesi) da un sicuro fallimento conseguente al default di una Nazione, a causa dell’elevato numero di titoli di Stato da esse detenuti.

In questo contesto, per uscire dalla crisi, che è quella delle condizioni di vita della maggior parte delle persone, è necessario interrompere questa spirale economica sottraendo linfa alla speculazione finanziaria. Diventa indispensabile colpire quella che abbiamo visto essere la fonte del guadagno speculativo attraverso il non pagamento degli interessi (o la loro dilazione temporale) e la dichiarazione di default (bancarotta). Il Default può essere una via d’uscita per non dover destinare le risorse dei Paesi al pozzo senza fondo del debito pubblico. Solo affrontando la questione dell’indebitamento attraverso un ottica europea, che recuperi l’unità tra politica monetaria e politica fiscale, diventa possibile un loro riequilibrio.

Dopo il default?

Procrastinare questo sistema e i suoi meccanismi, semplicemente tappando il buco di una diga oramai piena di crepe profonde, non farebbe altro che rimandare ancora una volta l’inevitabile tracollo generale di un equilibrio oscillatorio dove le perdite vengono socializzate.

E’ necessario riuscire a proporre un modello alternativo, non solo degli strumenti per uscire dalla crisi, ma anche del sistema economico da contrapporre alla finanziarizzazione e al consumismo che dominano le nostre vite e distruggono il nostro pianeta. Quello di cui c’è bisogno è una riconversione ecologica, sia culturale che economica che, a partire dai consumi individuali, deve modificare profondamente la produzione. Non sono accettabili soluzioni socialdemocratiche basate sulla spesa pubblica (da tempo più vicina all’appena descritto processo di finanziarizzazione che al concetto di spesa sociale) e nemmeno progetti di Green Economy che prevedono uno spostamento degli stessi meccanismi su settori semplicemente più presentabili.

Lo spazio per rilanciare i consumi è terminato, oltre che economicamente, soprattutto a livello ambientale e sociale. A partire dal territorio e dalle esigenze interconnesse di chi ci vive, dobbiamo superare la logica del profitto e dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sull’ambiente.

Con l’avvicinarsi del tracollo, i protagonisti della politica si stanno arrabattando in un processo di smarcamento finalizzato al tentativo di scaricare la responsabilità della situazione solo su di una parte del sistema politico.

Il cambiamento però potrà avvenire solo a partire da un diverso modo di concepire la politica e l’economia, sostituendo l’interesse individuale con la composizione di interessi collettivi, e basandosi su iniziative condivise. La libera circolazione dei saperi e dei corpi come cornice fondamentale del consumo, non più compulsivo e individuale, ma comunitario e sostenibile.

Certo è chiaro che, per arrivare a questo cambiamento, sarà necessario sbarazzarsi dell’attuale classe dirigente e del sistema partitico, basato sulla democrazia rappresentativa. Non sarà facile dare spazio alla partecipazione con l’attuale gestione della democrazia, oramai solamente intenta a riprodurre se stessa proprio come il traballante sistema economico, ma sarà sicuramente il punto di partenza per una società più libera, egualitaria e sostenibile.

 

Questa voce è stata pubblicata in Lotta e progetti e contrassegnata con , , , , , , , , , . Contrassegna il permalink.