Contro crisi e austerità, mutualismo e organizzazione

La crisi economica e politica che stiamo oggi attraversando è la seconda e più acuta fase della crisi esplosa nel 2008 insieme alla bolla speculativa dei mutui subprime. Da una crisi da indebitamento privato – le famiglie americane incapaci di restituire alle banche le rate dei prestiti per l’acquisto di case – si è passati a una crisi del debito pubblico: ora sono alcuni stati ad incontrare crescenti difficoltà a ripagare le quote del loro debito pubblico, con i relativi interessi maturati, ai creditori, e per questo sono obbligati ad aumentare i tassi d’interesse, in una spirale potenzialmente senza fine. Per comprendere appieno il significato di quanto sta accadendo ed individuare alcune soluzioni possibili occorre inserire gli avvenimenti odierni in un quadro di lungo periodo.

Come hanno rilevato numerosi economisti eterodossi, il capitalismo è un sistema intrinsecamente instabile. Detto altrimenti, il capitalismo presuppone la crisi, il capitalismo è crisi. Questo perché esso implica un conflitto tra la tendenza ad aumentare indefinitamente lo sfruttamento del lavoro vivo e l’impossibilità di realizzare i profitti che questa tendenza implica. Tuttavia, il capitalismo, in quanto sistema dinamico, ha dimostrato nel corso della storia di riuscire a superare fasi di crisi acuta. In altre parole, esso non crollerà autonomamente. L’ultima grande crisi, quella del ’29, è stata arginata attraverso il rimodellamento delle funzioni dello stato, che si è fatto garante dell’erogazione di prestazioni sociali (il welfare state) e della pace sociale (il compromesso tra capitale e lavoro). La riproduzione e l’allargamento della base del sistema capitalistico sono state salvaguardate e una fase di relativa stabilità e crescita è durata fino agli anni ’70. Questo paradigma produttivo (fordista-taylorista-keynesiano), identificabile con la produzione di grande fabbrica a catena di montaggio, ha cominciato a vacillare. Da un lato ha agito la saturazione dei mercati: i beni di consumo durevoli (auto, frigo, lavatrici, etc.) alla base del trend di sviluppo si erano diffusi in tutto l’Occidente. Dall’altro lato il capitalismo è stato messo a dura prova dall’assalto al cielo condotto dalle operaie e dagli operai dei paesi sviluppati, che con ciclo di lotte lungo un decennio hanno ottenuto più diritti, servizi pubblici migliori, ma soprattutto salari così elevati da erodere considerevolmente la quota di profitti.

La rivoluzione dall’alto scatenata dal capitalismo contro le lotte operaie è passata anzitutto per una radicale ristrutturazione del sistema di fabbrica: le attività sono state scomposte, decentrate e riorganizzate in modo flessibile. Questo processo è stato accompagnato da un cambiamento in senso restrittivo delle politiche monetarie (la “svolta monetarista”): si è così proceduto a una redistribuzione della ricchezza e ad un recupero di competitività sui mercati delle merci, al prezzo di una maggior disoccupazione. Infine, la trasformazione dei mercati finanziari ha permesso di superare i limiti alla realizzazione dei profitti derivante dalla compressione dei salari reali: laddove i ceti medi e subalterni non potevano arrivare con i loro stipendi, arrivava il credito al consumo. La nuova finanza deregolamentata si abbinava alle privatizzazioni: nuovi mercati venivano creati in sostituzione di quei servizi e di quelle strutture di welfare fino ad allora pubbliche. I lavoratori sono stati così in parte neutralizzati, rendendoli schizofrenici: se l’erogazione della pensione di un operaio dipende da un fondo pensioni composto anche da titoli di borsa dell’azienda presso la quale lavora, una riduzione del suo salario oggi può comportare un aumento del valore delle azioni, e dunque delle pensioni di domani (e viceversa). Un secondo effetto della finanziarizzazione dell’economia è la perdita di sovranità da parte degli stati. Esemplificativo a riguardo risulta essere il processo di costruzione dell’unione monetaria europea. I vincoli ai bilanci degli stati membri imposti da Maastricht e l’assenza di politiche fiscali comuni a fronte di una politica monetaria centralizzata e restrittiva hanno nel corso del tempo generato degli squilibri tra i paesi membri dell’UE.

Questo è, a grandi linee, il contesto nel quale nel 2008 è esplosa la bolla speculativa immobiliare americana. La reazione immediata è stato il tentativo da parte degli stati di salvare le banche coinvolte: erano too big to fail, e pur di non farle fallire gli stati hanno generato enormi buchi di bilancio, incolmabili in un periodo recessivo. Forse non è superfluo ricordare che, benché i costi dei salvataggi delle banche esposte siano stati sostenuti dalla collettività, gli utili prodotti dalle banche salvate sono stati comunque incamerati dagli azionisti (il comunismo del capitale…).

Nel 2010 la crisi è passata a essere crisi del debito pubblico. Come è stata innescata? Goldman Sachs, una tra le più grandi banche d’affari al mondo, deteneva titoli pubblici greci. Ha rastrellato sul mercato i cosiddetti credit default swap (CDS, ossia titoli derivati che assicurano un creditore di fronte all’insolvibilità) relativi a quel debito, salvo poi vendere massicciamente sul mercato i titoli di debito greci, lasciando intendere un rischio di insolvenza della Grecia. Queste voci trovano conferma nelle valutazioni delle agenzie di rating (nei cui consigli siedono uomini delle principali banche d’affari del mondo), che degradano l’outlook sul debito greco. Mentre il valore dei titoli greci scende, quello dei CDS schizza alle stelle, e la banca d’affari realizza un profitto. Il paese viene “commissariato” per far fronte al crescente indebitamento derivante dall’aumento del tasso di interesse che è costretto a pagare per la sua presunta inaffidabilità: vengono imposti tagli e pesanti misure di austerità; le compagnie pubbliche e i beni comuni vengono privatizzati; vengono introdotte nuove riforme. In sostanza si sancisce l’ingresso dei mercati finanziari in settori prima pubblici. Il ciclo si chiude con la banca d’affari che ricompra i titoli di debito a un valore nettamente inferiore rispetto a quello a cui li ha venduti.

Il meccanismo appena descritto è quanto sta accadendo in questi ultimi mesi anche in Italia. I protagonisti sono i medesimi del caso greco: Goldman Sachs e Deutsche Bank. Quest’ultima nei primi 6 mesi del 2011 ha ridotto dell’88% la propria esposizione sui titoli italiani, vendendo 6 miliardi di euro di titoli. E’ questo che innesca la crisi. Vale la pena sottolineare come i mercati finanziari siano autoreferenziali: non si tratta di null’altro che di profezie che si auto-realizzano. Quindi, le banche usano la liquidità loro fornita dagli stati nel 2008 per due fini: speculare nel senso tradizionale e imporre la logica di mercato ad attività e settori prima ad essa alieni. I piani d’austerity sono funzionali a questo obiettivo. L’attacco non si fermerà fino a che non avrà prodotto questo risultato. E’ infatti il mercato a definire la convenzione sulla sostenibilità di un’economia. Qual è il costo sociale di questa cura? Tagli al welfare, disoccupazione, stagnazione economica: la tipica cura che uccide il paziente.

A fronte di questa prospettiva alcune proposte sono state fatte per risolvere il problema. Tra quelle avanzate dai movimenti l’idea del “diritto al default” è probabilmente quella che ha trovato maggior consenso. Cosa si intende? il non pagamento degli interessi (o la loro dilazione temporale) e l’inizio di un processo di default controllato. La logica della proposta è quella di utilizzare la minaccia del default come strumento per contrastare la speculazione dei mercati finanziari. L’ultima cosa che uno speculatore desidera è infatti al definitiva e completa svalutazione dei titoli sovrani. Riconoscere quindi che esiste una componente di debito illegittimo, rifiutare di pagarla e garantire allo stesso tempo i piccoli risparmiatori tramite l’emissione di eurobonds con rendimenti similari agli originali titoli del debito sovrano. E’ questa l’essenza della proposta. Tuttavia ciò può funzionare solo ad una condizione. Che si attui un radicale cambiamento dell’attuale assetto istituzionale dell’euro nella direzione di una spesa fiscale e sociale comune. Che si abbandoni la logica perversa alla base dei vincoli di Maastricht e del Trattato istitutivo della BCE.

 

Rispetto alla proposta del diritto al default infatti, più importante ancora dell’atto in sé, è porre le condizioni per evitare ulteriori attacchi. Recuperare la sovranità sia di politica fiscale che di politica monetaria significa recuperare un fondamentale strumento contro la speculazione finanziaria.

 

Questa ricetta in realtà la conoscono tutti. Essa è sostenuta da anni anche da molti studiosi d’ispirazione liberale. Non è la Rivoluzione, è semplice buon senso. Perché allora non viene seguita? Per numerosi motivi: rapporti di potere tra stati interni all’UE, dogmatismo culturale, mancanza di una struttura istituzionale in grado di rendere attuabili in tempi brevi cambiamenti necessari… ma la ragione di fondo è un’altra: lo stato sta sempre col capitale! Di fronte alla crisi, tra la via d’uscita buona per il popolo e quella buona per il capitale preferisce quella buona per il capitale. Ecco perché non ci sono partiti o governi amici, ecco perché un governo tecnico, emanazione diretta delle lobby finanziarie, è particolarmente pericoloso.

Dunque, oggi più che mai, i movimenti sociali che si oppongono agli effetti della crisi non possono che coltivare le loro proposte in autonomia da partiti e sindacati. Con la loro irrappresentabilità, con il rifiuto della delega, con il conflitto sociale, i movimenti possono arrivare ad imporre ai governi l’interruzione, attraverso il default, della spirale tra indebitamento, speculazione e austerità. Ma solo dalla crescita organizzativa complessiva e dalla messa in rete di esperienze isolate può diffondersi solidarietà. Questa può costituire le fondamenta di un nuovo welfare mutualistico rispondente ai bisogni sociali diffusi. Conflitto e pratiche cooperative autorganizzate devono però marciare insieme. Per farlo, sono necessari spazi comuni di confronto e condivisione, nei quali sia possibile costruire percorsi ricompositivi capaci di aprire una fase costituente fuori dallo stato e dall’Europa di Maastricht.

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