Martedì 5 ottobre assemblea d’ateneo ore 11

La crisi economica che iniziò nel 2008 continua. L’ennesima riforma dell’università verrà discussa in Parlamento il 14 ottobre. Per fortuna ci sono i ricercator* che hanno deciso di occuparsi di se stessi. Hanno deciso di opporsi a un progetto di riforma che colpisce la ricerca e priva questa categoria di ogni prospettiva in un sistema controllato dai baroni. I ricercator* usano le armi che hanno a disposizione, cioè rifiutandosi di fare lezione: in teoria non spetterebbe a loro tenere i corsi, in realtà lo fanno, gratis. Per questo in molte facoltà le lezioni sono cominciate in ritardo. Siamo senza dubbio solidali con la protesta dei ricercatori, purché non sia portata avanti con spirito corporativo, ma cooperando con gli altri soggetti colpiti dalla crisi: la riforma non si cambia, si cancella! Noi non ci fidiamo di rettori e baroni: la riforma dà loro più poteri e per questo la vogliono. Semmai sono interessati a cavalcare la protesta dei ricercatori per ottenere qualche monetina capace di tenere in vita il corpo moribondo dell’università.
Cos’è l’università oggi? È il frutto di venti anni di riforme europee, portate avanti sia dal centrodestra che dal centrosinistra. È un’organizzazione feudale, preda degli interessi dei privati, in cui la qualità del sapere trasmesso si è sempre più deteriorata. Il colpo finale arriva oggi: viene di fatto abolito il diritto allo studio, in nome della “meritocrazia” della Gelmini. Per questo, la riforma, più che i ricercator*, colpisce gli student*. Ma la Gelmini è un ministro-fantoccio, il DDL non è farina del suo sacco. La Gelmini non sa neanche cosa sia la “meritocrazia”: è andata a fare l’esame di stato per avvocato a Reggio Calabria. La realtà è che questa riforma è voluta da Confindustria.

Per questo crediamo che l’opposizione alla sola riforma sia troppo limitata, che rischi di essere una battaglia inutile. Dire “difendiamo l’università” oggi non vuol dire nulla. L’università oggi è la fabbrica che produce manovalanza flessibile ad alto grado di sfruttabilità e a basse remunerazioni. Non ci interessa salvarla. Ci interessa salvare noi stessi. Te lo diciamo altrimenti: vogliono che una volta che ti sei laureato tu faccia un anno di stage, lavorando non pagato; poi magari anni e anni di contratti a tempo, lavorando otto-dieci ore al giorno per 500 euro al mese; l’alternativa è la disoccupazione: oggi un giovane su tre è senza lavoro. Non pensare che questo non succederà a te, ma a qualcun altro. Non pensare “io riuscirò a svoltarla”, è quello che vogliono. È l’illusione che vogliono creare. Invece succederà proprio a te. Se tu stesso non ti occupi di te stesso, nessun altro lo farà al posto tuo. Occupati di te stesso, fallo insieme a chi condivide la tua condizione. Questo è l’insegnamento, oggi, dei ricercatori.

In tempo di crisi non sono solo ricercator* e student* a subire la scure dei tagli, l’aumento delle tasse, la prospettiva della precarietà. Molte imprese chiudono lasciando i lavoratori in cassa integrazione. Più in generale, la gente comune, la gente che lavora, subisce le misure di austerità dei governi. Quindi, è quanto mai attuale lo slogan che gridavamo due anni fa: “noi la crisi non la paghiamo”. Ci vuole solidarietà tra categorie sociali diverse ma unite dal rifiuto di pagare una crisi che non hanno provocato. Ci vogliono più soldi: per la ricerca, per l’istruzione, per i servizi. Ma soprattutto, ci vuole mutualismo: per costruire da subito forme di welfare dal basso, senza aspettare che qualcuno prima o poi ce le regali. Data la gravità della situazione in cui ci troviamo è necessario far leva sulle schifezze che caratterizzano la nostra condizione soggettiva: oltre che di università, intesa come sacro tempio del sapere (ma dove?), bisogna parlare di stage, di precarietà, di presente, di futuro.

Vogliamo che i momenti assembleari che sono stati fin qui organizzati siano spazi in cui non si debba solo ratificare le decisioni già prese a porte chiuse da un qualche ceto politico, ma in cui vengano decise le prossime mosse, senza timore di alzare troppo la voce. Abbiamo infatti il chiaro esempio dei ricercator*: vi sembra forse che l’indisponibilità alla didattica sia un metodo blando? E noi, cosa facciamo?

STUDENT* IN CRISI

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