#occupypavia

 Il 17 dicembre 2010 un laureato precario, costretto a fare il venditore ambulante, si dà fuoco nella piazza di Sidi Bouziz, cercando di trasmettere il proprio messaggio di rifiuto nei confronti di un sistema in perenne stato di crisi, dove il precariato, soprattutto giovanile e qualificato, non ha più sbocchi, né professionali, né esistenziali. La società tunisina accoglie questo messaggio, trasformandolo in un tentativo radicale e concreto di cambiare il modo di concepire il mondo. Il 14 gennaio, infatti, Ben Alì viene cacciato e la popolazione conquista la città di Tunisi.

Ispirati dai tunisini, anche gli egiziani intraprendono una lotta di questo tipo, contro uno Stato che da decenni pone sotto un regime di sudditanza la popolazione e che non è mai stato in grado di garantire condizioni umane ed economiche decenti. Qui, come in Tunisia, dopo la cacciata del raìs (Mubarak si dimette l’11 febbraio), si installano governi nella sostanza uguali ai precedenti, sostenuti e protetti dall’apparato militare che ha preso le redini del paese. Chi non desidera solamente un passaggio di scettro, ma un reale cambiamento, continua tuttora un processo di rivoluzione, sensibilizzazione e rimodellamento del tessuto sociale.

Questa lotta contro la continua precarizzazione della società e dell’esistenza viene ripresa anche in Spagna. Al grido di “Que se vayan tod@S”, il 15 maggio 2011 è indetta una manifestazione nazionale, portata avanti città per città. Più di 50 città spagnole sono attraversate da cortei, al termine dei quali si hanno occupazioni di varie piazze, trasformate in tendopoli. L’obiettivo non è solo sensibilizzare la società, ma anche portare in questi luoghi il potere decisionale. Da questo punto di vista, la nuova pratica delle “acampadas” è un’innovazione. Vengono organizzate assemblee divise per sfere di competenza (cibo, pulizia, gruppi di studio, ecc.), in cui si svolgono discussioni, dibattiti e prese di decisione. Mentre i politici del palazzo sono in Parlamento ad approvare tagli, misure di austerità e salvataggi per i privati a discapito dei cittadini, la gente si autorganizza, cercando di dotarsi di servizi e prospettive fino ad allora negati. Il movimento spagnolo lotta contro la tirannia della finanza globale attraverso la partecipazione attiva degli individui all’interno dell’assemblea, rifiutando ogni delega e affermando la propria irrappresentabilità. L’esempio lampante è dato dalla decisione, presa da alcune assemblee cittadine, di proseguire la lotta momentaneamente interrotta dagli sgomberi delle acampadas in assemblee di quartiere.

Dal Nordafrica alla Spagna, dalla Spagna agli Stati Uniti. Il 17 settembre, a Zuccotti Park (New York), alcuni manifestanti si riuniscono per contestare pacificamente l’asservimento delle istituzioni statali alla finanza. “We are the 99%” indica la presa di coscienza della propria condizione, di persone colpite indifferenziatamente dalla crisi, mentre l’1%, responsabile di quest’ultima, aumenta la propria ricchezza. Circa una settimana dopo l’occupazione, le forze dell’ordine sgomberano violentemente la piazza, compiendo 80 arresti. Una manifestazione a sostegno degli arrestati si conclude con l’occupazione del ponte di Brooklyn. Ironia della sorte, questa volta gli arresti sono 700.

L’aspetto più bello del movimento Occupy è la costruzione di legami tra le persone. Se questi legami saranno rafforzati, Occupy potrà davvero riportare la società moderna su un cammino più umano. (Chomsky)

Il movimento Occupy non viene fermato dalla repressione: oltrepassa i confini di New York per giungere anche in altre città, come Boston, Hartford, Seattle, Washington DC, Tampa, etc. Un caso particolare è quello di Oakland, dove il movimento si radicalizza. Tutto ha inizio il 10 ottobre, con un accampamento pacifico di fronte al municipio. La sera del 23 ottobre viene indetta una manifestazione per riprendere la piazza precedentemente sgomberata dalla polizia. Quest’ultima carica il corteo con lacrimogeni e proiettili di gomma. Il 2 novembre viene lanciato uno sciopero generale, in cui l’occupazione si estende dalle strade agli edifici e ai centri nevralgici per il commercio e il flusso delle merci. La contestazione passa anche per azioni contro le banche, flash mob e sit-in improvvisati.

A livello globale, tutte queste pratiche convergono nella mobilitazione del 15 ottobre, che vede partecipi le piazze di numerose città in tutto il mondo. Ognuna contribuisce alla lotta con modalità diverse: chi con occupazioni non violente di piazze, chi con occupazioni di edifici e chi con resistenza e barricate. La base comune è l’assenza di partiti e sindacati, per ribadire il concetto della non rappresentanza. In Italia, invece, le parole d’ordine del movimento sono travisate a fini elettorali: si “dimentica” l’idea di assaltare i palazzi del potere per finire invece in una proclamazione personale in piazza, sfruttando i numeri del corteo.

Per superare questi ostacoli e ottenere un reale cambiamento occorre smettere di delegare ad altri e mettere in gioco la propria soggettività. Il tempo in cui dieci attivisti si mobilitano per portare avanti un’istanza poi catturata e reinterpretata dai partiti è finita. Ora le piazze si mobilitano per organizzare in uno spazio condiviso la vita e la gestione delle cose comuni, trascendendo dal finora eterno binomio tra pubblico e privato. Lo spazio virtuale comune per il rilancio delle iniziative e delle riflessioni dei movimenti è la rete, intesa come terreno per poter organizzare una lotta transnazionale, sfruttando al meglio le potenzialità offerte dai vari social network. Allo stesso tempo al movimento servono spazi reali di confronto, discussione e messa in comune della vita. Non è necessario importare e riprodurre le acampadas dalla Spagna o “sognare una Piazza Tahrir” italiana. Quello che serve è che ognuno si attivi e che, nel vivo delle lotte, attraverso il confronto, partecipi alla riappropriazione di spazi fisici e mentali che permettano la crescita organizzativa del movimento e la crescita intellettuale dell’individuo.

Bisogna che tutti sappiano cosa possono fare per cambiare le cose e quali sono le conseguenze del non far nulla. Informare le persone non significa dirgli in cosa devono credere, ma imparare tutti insieme. Si impara partecipando. Si impara dagli altri. Si impara dalle persone che si cerca di coinvolgere. Abbiamo tutti bisogno di capire e di fare esperienza, prima di formulare nuove idee o migliorare quelle degli altri. (Chomsky)

Questa voce è stata pubblicata in Lotta e progetti e contrassegnata con , , , , , , , , , , , , . Contrassegna il permalink.